DELIRIO TACCAGNO
di Raimondo Rotondi
Caro Cervone,
Uso il tuo soprannome, perché ignoro il nome vero.
Spero di non offenderti.
Se a me piace sentirmi ancora chiamare “Bionico”, non
è sempre così per tutti.
Quando gli incendi di gioventù si spengono nel mare
tranquillo della maturità, non si vogliono ricordare cose di cui si ha
vergogna, ma anche rimpianto e nostalgia. Non
dovrebbe essere il tuo caso, comunque. Morendo giovane, sei rimasto tale per
sempre.
Il tragico incidente, avvenuto due anni prima della
mia nascita, ha impedito d’incontrarci. Ti ho conosciuto soltanto attraverso i
racconti di mio padre. Sei stato il suo compagno d’avventure giovanili, al
tempo in cui era chiamato “Cèrqua Néra”.
Giovani com’eravate continuate ad essere, nella foto
che conservo.
Mio padre la considerava il simbolo della sua
gioventù. La teneva nel “salotto buono”, dov’era orgoglioso di mostrarla. L’ho
lasciata lì, dopo la sua morte.
A cavallo di belle moto, vestiti di pelle nera,
mostrate aria spavalda.
Fu scattata alla fine dei quaranta,
forse inizio cinquanta, nella Francia del nord. Lì eravate emigrati, subito
dopo la guerra.
Lui aveva già comprato una casetta,
che definiva ironicamente “rolla di casa”.
Dormiva con la moto a fianco del
letto, per mancanza di spazio.
A vent’anni circa aveva già
guadagnato una moto ed una piccola casa. Non era poco neanche per l’epoca. Oggi
sarebbe addirittura impossibile.
Negli anni seguenti avrebbe
acquistato anche la casa più grande in cui sarei nato. Quella zona industriale,
piena di fumo e nebbia, era il vostro Eldorado.
La tua situazione economica doveva
essere simile a quella di mio padre. Al momento dell’incidente, avresti avuto
moglie, figlia e casa di proprietà.
Apparite orgogliosi, soddisfatti,
padroni della vita. Niente può farvi paura.
Mi è sempre piaciuta quella foto.
Emana coraggio, determinazione, fiducia nel futuro.
Anche se nessuno di voi due è più
vivo, fa ancora lo stesso effetto.
L’abbigliamento evoca miti, cinema,
letteratura “Beat”.
Non siete attori levigati, però. I
muscoli sono da lavori pesanti. Gli sguardi sono ruvidi, ostinati.
S’avverte in essi l’eco della
peggiore guerra mai combattuta dall’umanità.
Era stata immensa e senza confini:
un mondo d’esplosioni, sangue, urla di sofferenza. La debole risacca della
tempesta lontana, si era trasformata, a poco a poco, in onde impetuose.
Giovani per combattere, avevate
cavalcato le onde, con l’incoscienza dell’età. La guerra vi aveva visto
vagabondare, lungo la linea Gustav, ad un pelo dal peggio in agguato.
Tutti fuggivano dal fronte. Voi
fuggivate i fuggiaschi, cercando il fronte.
Molti s’arrangiavano confezionando
sigarette. A voi toccava smerciarle.
I soldati fumavano parecchio. Non
esistevano fisime salutiste, in luoghi così poco salutari.
Persone sensate non si sarebbero
avventurate in quell’inferno, neanche per commerciare diamanti.
L’alta temperatura della testa
calda doveva avere il suo peso.
Tutti abbiamo vissuto l’adolescenza.
La peggiore tempesta della vita
vale cento uragani.
Folate d’ormoni sconosciuti,
svegliano nuovi pensieri. Il mondo sembra diverso. Genitori che capivano tutto,
d’improvviso non capiscono niente. È tutto storto, malfatto, ingiusto e disordinato.
Bisogna fare qualcosa.
Si diventa strani, lunatici,
ribelli e scorbutici. A volte basta, per rovinarsi la vita.
Le autorità sono un problema.
Perfetti imbecilli non possono arrogarsi il diritto di guidare le nostre
vite. Contestarli è un atto di giustizia.
Comportamenti “non allineati” e
“sopra le righe” diventano norma. Si è però anche disposti al bene e generosi
in modo straordinario.
“… ogni poco d’istanza basta ad
ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrificio…”, secondo Alessandro Manzoni.
Il cupo delirio taccagno, nascosto
nelle pieghe oscure del mondo, odia ogni generosità. Guarda i giovani generosi con malevolenza. Non manca di colpirli,
appena ne ha occasione. Arriva ad uccidere.
Voi riusciste a schivarne, in
parte, gli attacchi. Era in corso una tempesta immensa. Se i giovani generosi
affrontano a viso aperto i pericoli, il delirio taccagno non può neanche
immaginare di farlo. Se ne stava rintanato.
I suoi attacchi erano meno letali
del solito.
La linea Gustav non era, comunque,
uno scherzo.
Un tremendo demone la percorreva, in contemporanea con
voi.
Non vendeva sigarette. S’occupava del vizio bellico,
antico quanto l’umanità. Da spacciatore sadico, tormentava le vittime. Le spingeva
al fondo dell’abiezione per goderne.
Palleggiava con abilità, dribblando le illusioni di
serietà degli uomini.
Caricava di ridicolo, fino a scardinarle, le teorie
dei migliori strateghi. Rendeva vano l’abuso d’ogni tecnologia bellica.
Ingarbugliava fili, indifferente alla sorte degli uomini. La battaglia diveniva
“…contesa tra pastori di capre, su sentieri da capre, per il possesso di
pascoli da capre”, come la descrisse un noto personaggio storico.
Nessuno riusciva a contrastarlo. La battaglia era un
serpente velenoso che sgusciava fra le mani. I soldati vagavano nel fango,
brandendo fucili come clave. I comandi stessi sprofondavano nella palude.
Uragani di fuoco polverizzavano paesaggi e storia.
Annientavano migliaia di vite umane, invano.
Venne l’ora di mercenari disumani. La barbarie dei
loro coltelli annientò ogni tecnologia.
La guerra divenne orrore preistorico. Primitivi
guerrieri scannarono, mutilarono, trafissero. S’avventarono poi sui villaggi,
dando inizio al peggio.
Il demone si abbandonò con loro all’ebbrezza dello
stupro e del saccheggio.
Danzò coperto di sangue ed assetato d’esso,
accompagnato dal pianto atroce delle vittime innocenti.
Si parla ancora poco di quella battaglia. Si
preferisce tacere.
Voi, magnifiche teste incandescenti, eravate di casa
in quell’inferno.
Ne avreste fatto una miniera d’aneddoti.
Nei mesi successivi, non ancora stanchi, vi piacque
l’idea di smontare mine.
La mia povera nonna parlava così del figlio
scapestrato: - Quell’animale è un ragazzo d’oro. Tu sei un animale come lui. –
Non ho mai capito se era un complimento.
Voi, animaleschi ragazzi d’oro, smontavate mine per
venderne l’esplosivo.
Vi andò sempre bene. Guadagnaste abbastanza da passare
la frontiera con la Francia, clandestini ed ancora minorenni.
Vennero poi tempi di cui so poco. Mio padre ne parlava
per sommi capi, senza spiegare.
Ai tempi della fotografia, il peggio era passato.
Vi eravate stabilizzati, ma iniziava anche la fine di
un’epoca.
L’amicizia di gioventù si raffreddava. Vi frequentavate
già meno.
- Era di trècca, Cervone, io la sera avevo
sonno. – Diceva.
Che cosa fosse la trècca, l’ho scoperto grazie
ad un’anziana signora.
La definiva tranca, però. Una vicina sosteneva
che il termine giusto fosse taranca. Si riferivano comunque alla stessa
cosa.
Al termine degli antichi festini campestri, gruppetti
d’irriducibili continuavano a bere, suonare e ballare fino a notte inoltrata.
Il suono della fisarmonica, per la stanchezza e le
libagioni, diventava brusco, secco, sguaiato. S’intonavano canti licenziosi.
Alcune donne osavano più del solito. La brutalità della musica era all’origine
dell’impreciso nome.
La trècca, con vari nomi, era stata in uso fra
tutte le popolazioni agricole europee. Giunta oltreoceano al seguito degli emigranti,
avrebbe dato origine alla musica rock.
Non credo però si usasse, dove vi trovavate. Per mio
padre il termine indicava la vita nottambula.
Era quello il periodo d’allontanamento che inizia la
fine della gioventù.
Si comincia col prendere le distanze da comportamenti,
prima amati, ora ritenuti sbagliati. La responsabilità d’essi è sempre degli
amici e mai propria.
Un virus, travestito da maturità, s’infiltra nelle
fibre del pensiero. Iniziano a morire amicizie che duravano, a volte, dai tempi
delle elementari.
All’inizio ci s’incontra solo un pò meno, come si
avessero altri impegni. Poi sempre meno. Alla fine non ci si trova più.
“E nessuno, nessuno sa quel che succederà di nessun
altro se non il desolato stillicidio del diventar vecchi”, secondo Kerouac.
Tu, Caro Cervone, sei morto prima che questo
avvenisse.
- Correvano per soldi. Non poteva andare sempre bene.
– L’unico commento di mio padre.
Sono passati quasi cinquant’anni, da allora. Non
esistevo ancora. Nel frattempo sono nato e cresciuto. Ho vissuto anch’io la mia
gioventù.
All’epoca avevo già scritto la serie di racconti
umoristici “I Racconti di Darla”.
L’inizio è rimasto famoso: “C’erano donne decise, a
Darla. …”.
Cercavo quelle donne decise, in un posto lontano ed
imprecisato.
Le inseguivo per centinaia di migliaia di chilometri.
Ero guidatore esperto e veloce. Spesso riuscivo a raggiungerle.
Vivevo come un vulcano, con l’energia generosa da
“Bionico”.
Il delirio taccagno non me l’ha mai perdonata.
Mi ha dichiarato una guerra che ancora dura. Finora
non ha potuto niente, però. Ci azzuffiamo in modo furibondo da anni. Coraggioso
ed incosciente come sono, lo prendo di petto, senza paura delle unghiate
micidiali. Il delirio taccagno, in fondo, è un bluff. Basta affrontarlo, per farlo
fuggire.
Non sono una vittima facile. Non mi assalta più come
un tempo. Si limita a sbuffi stizzosi, ogni volta che mi vede.
In compenso, ha quasi sterminato le generazioni
successive. La droga è stata una delle sue armi peggiori.
Una società, travolta dal delirio
taccagno, arriva ad uccidere il futuro per soldi. Giunge ad eliminare la
possibilità stessa del futuro.
I giovani d’oggi sembrano non servire più a niente.
Sono qualificati più di tanti predecessori, ma il mondo non ne ha bisogno.
Devono sopportare umiliazioni e compromessi, sentendosi inutili, non previsti,
respinti.
Nell’attesa vana, di non si sa bene cosa, covano
oscuri desideri di rivalsa. Una società equilibrata deve sapere che non può
umiliare nessuno, oltre un certo limite. Soprattutto non può umiliare il suo
futuro. Lo sta facendo e le conseguenze saranno gravi ed imprevedibili.
Troppi giovani si arrendono senza combattere. Altri
s’illudono nella sconfitta, ritenendola vittoria. Gli animali generosi
sembrerebbero scomparsi.
Esistono ancora, per fortuna. Vivono la vita in
positivo. Combattono senza risparmio. Cadono, si rialzano e combattono ancora.
Le prendono e le ridanno, colpo su colpo, senza fermarsi mai. Combattono
sempre, fino al gong finale del destino.
Fra queste persone metto Giò Rìnt, il mio benzinaio.
Il soprannome è una storpiatura di joint (spinello),
ma era dedito a ben altro. Nel suo giro usavano roba pesantissima e l’hanno
pagata cara.
Un paio si sono lessati il cervello, per sempre.
Parecchi sono morti.
Erano stati bollati come “portacassa”, per la
frequenza con cui seguivano funerali di compagni.
Alcuni non ne sono usciti più. Sono, da anni,
protagonisti delle pagine di cronaca.
Giò Rìnt ce l’ha fatta. Ha smesso da solo, senza
aiuto.
Ha combattuto contro il delirio taccagno. Ha subito
gli effetti di una delle sue armi peggiori, ma non si è arreso. Ha tenuto duro
ed alla fine ha vinto.
Liquida quel periodo come “cóse ra uagliune”,
senza aggiungere altro.
Ha rilevato un’attività e la porta avanti. La gente lo
evitava. Poi ha iniziato a premiarne la buona volontà.
- Vendo l’olio al prezzo più basso. – Spiega - La
gente ti aiuta volentieri, se ci guadagna.-
Stasera mi trovavo nella sua officina, quand’è
arrivato un cliente con una moto di magnifica bruttezza: poderosa meccanica
italiana, senza fronzoli.
Si è tolto il casco mostrando la solita “pelata” con
orecchino.
I giovani hanno adottato quel costume seicentesco,
ignorando forse di essere tanto tradizionalisti.
Non conoscevo quel giovanotto, vestito di pelle nera,
con muscoli da lavori pesanti, più che da palestra. Lo sguardo sfidava il
mondo, certo della vittoria.
Giò Rìnt, abbeverata la moto, è tornato
da me dicendo:
- L’hai visto “Péngrilla”? Ha staccato adesso. Mo’ si
fa cinquanta chilometri per andare a trovare la “uagliòna”. Che spirito! -
Conosco di fama il soprannome.
Quel ragazzo fa lo stesso lavoro pesante e brutale che
facevo anch’io, alla sua età.
Gli scansafatiche si sentivano male soltanto a
parlarne, ma era redditizio. Potevo permettermi molti sfizi, grazie ad esso.
Per Péngrilla dev’essere la stessa cosa. Cavalca una
moto che non costa poco.
Con nostalgia, l’ho immaginato divorare la strada,
verso una donna “decisa”.
Quando avevo la sua età, nessuna
distanza mi spaventava. Ero capace di sorbirmi duecento chilometri, dopo dodici
ore di lavoro.
Amavo la vita e volevo viverla senza
risparmio. Lo stesso atteggiamento mi aspetterei da ogni giovane, adesso che io
non lo sono più. Devo frenare, per non giungere troppo veloce alla destinazione
finale.
Molti dei giovani che conosco,
stazionano però a motore spento, col freno a mano tirato.
Non sono mai partiti. Forse non hanno
neanche provato a farlo.
Non reagiscono e s’abbandonano, di
fronte a problemi che considerano immensi.
Se reagiscono, imboccano strade
tremende. Diventano abietti e dediti all’abiezione.
Pochi sfidano la vita nel modo generoso e vitale che
ritengo giusto.
Péngrilla potrebbe essere uno di questi. L’istinto mi
ha fatto intuire qualcosa, dietro il suo sguardo.
Mi ha ricordato te e mio padre. Inforca la moto nello
stesso modo, dinoccolato dall’abitudine a dosare le forze.
Anche lui è un giovane lavoratore schietto che non
rinuncia a vivere la vita.
L’ambiente può essere pericoloso, purtroppo, per tipi
come lui.
L’insieme di forze oscure, che ho chiamato delirio
taccagno, incombe su tutti.
La dura limpidezza dei vostri tempi è annegata nella
melma amorale dei nostri. La società avrebbe bisogno di nuove energie
incorrotte. Pare invece impegnata a distruggerle.
A volte il delirio taccagno sembra imbattibile. È
facile perdersi di coraggio e lasciarsi andare. Può balenare l’idea di “…vendere
l’onore in cambio di un’indegna e disonorevole onorabilità”.
Ho citato la frase tormentone di mille discorsi
giovanili. L’ho sentita e detta chissà quante volte, ma ne ignoro l’autore.
Dev’essere un ottimista. Molti sembrano oggi impegnati
a regalare l’onore in cambio di niente.
Non è facile rimanere fedele ai propri principi.
Io ne ho pochi, schematici ed essenziali, ma non sono disposto
a rinnegarli. Neanche sono disposto a rinunciare ai miei sogni.
Accendo il computer come vent’anni fa la moto, verso
una vaga promessa nella notte.
Mi sento ancora simile a giovani come Péngrilla,
intenti a vivere la vita senza risparmio.
Anche Giò Rìnt, con tutti i suoi errori, merita
ammirazione.
Ha sbagliato, ma ha saputo reagire. Può guardare ora
il futuro con fiducia.
Péngrilla e Giò Rìnt non sono molto diversi da voi
nella foto.
Con molte durezze alle spalle, seduti sul frutto del
loro lavoro, sfidano ancora il mondo con la certezza della vittoria.
Finché esisteranno questi giovani, il delirio taccagno
non avrà partita vinta.
|