Le illustrazioni sono state gentilmente messe a disposizione dal
Disegnatore e Grafico Pubblicitario
Mintapssòggi
di Raimondo Rotondi
Ci sono momenti, nella vita, in cui capita di restare soli,
se ne abbia bisogno o meno.
Vivevo uno di quei momenti.
Non ricordo cos’era andato storto, ma passavo le mie giornate
fra vuoto e frustrazione.
Mi tornava spesso in mente una frase di mio nonno:
"Quanne nen puó ì nè annanze, nè arrète, tiéra ì alla sèggia re prèta (quando
non puoi andare nè avanti nè indietro, devi andare alla sedia di pietra)
".
Nella
sedia di pietra del proverbio m'ero già imbattuto, anni prima, nel folto più
folto della selva impenetrabile.
Cercando funghi, avevo trovato resti di costruzioni,
diroccate e sepolte dalla vegetazione. In quella, che doveva essere stata la
piazza, del paese abbandonato, c’era una chiesetta con a fianco una grotta.
All'interno della grotta, la "sedia di pietra".
Mi aveva incuriosito, ma non m’ero soffermato molto.
Avevo, però, interrogato mio nonno, in proposito.
Il paese fantasma si chiamava “Prenno” ed era abbandonato da
sempre. La grotta, detta di S.Bernardino, aveva al suo interno un sedile di
pietra cui erano attribuite strane virtù.
Mio nonno aveva citato il proverbio. Aveva accennato anche ad
una leggenda, di cui, però, non sapeva molto.
Non ricordava altro. Lo scomparso paese di Prenno era rimasto
un mistero ed io l’avevo dimenticato.
Adesso quel proverbio mi tornava in mente: "Quanne nen
può ì nè annanze nè arrète...".
Sembrava parlare della mia situazione. Decisi d'avviarmi alla
ricerca della grotta.
Presi con me un pugnale, acquistato anni prima.
Non l'avevo mai usato per la sua lama spropositata, lunga
almeno quaranta centimetri.
Arrivai in macchina nel punto da cui ricordavo di essere
partito, per l’antica spedizione a funghi.
M’incamminai seguendo l'istinto, più che la memoria. Il bosco
incolto diventava sempre più fitto. Sembrava un buon segno.
Avanzavo nella vegetazione ispida, a tratti spinosa.
Quando giunsi ai primi resti di Prenno, ero sfinito.
Impiegai altre ore, o così parve, per arrivare all'ingresso della
grotta. Senza l'aiuto del pugnale, non sarei mai riuscito ad aprirmi un varco.
Arrivai all’agognato sedile tanto stanco da non reggermi in piedi.
Il sedile, immobile nella penombra ovattata, sembrava più
invitante che mai.
Mi sedetti e lo trovai comodo, come se la pietra fosse
imbottita.
Scivolai nel sonno senza accorgermene. Mi svegliò, dopo un
tempo indefinibile, la luce del sole che inondava la grotta.
Gli occhi, pieni di sonno ed abbagliati, faticarono a
distinguere un uomo barbuto, dai lunghi capelli incolti. Brandiva un'ascia, con
aria minacciosa. Altri, simili a lui, l'accompagnavano.
Grugnì parole che non compresi.
Bofonchiai in risposta qualcosa sulla grotta di S.Bernardino,
credo.
Il nome del santo ebbe un certo effetto.
-... Beerhardì? - chiese il barbuto.
- Bernardino. - confermai, sconcertato.
Si girò verso gli altri e pronunciò un breve discorso, di cui
afferrai soltanto la parola "Beerhardì", ripetuta più volte. M'invitò
poi a seguirlo con un ghigno cordiale.
Non mi meravigliò quello che vidi, fuori dalla grotta, quasi
m'aspettassi di vederlo.
Il bosco era sparito. Al suo posto, campi incolti.
I barbuti che m'avevano svegliato, indossavano rozzi abiti
dall'aspetto informe.
Portavano elmi e rudimentali armature in cuoio, corte spade,
asce e piccoli scudi. Soltanto due di loro avevano arco e frecce.
Tutti erano sporchi in modo incredibile. La sporcizia formava
uno spesso strato su volti ed abiti.
Capelli e barbe sembravano non aver mai conosciuto pettine o
barbiere.
L’odore che emanavano si accordava all’aspetto.
Uno prese a girarmi intorno, emettendo versi che suonavano
come uno sfottò. Quando provò a toccarmi il volto sbarbato, gli bloccai la mano
a mezza altezza, intenzionato a dargli una ripassata, se necessario.
La mossa suscitò l'ilarità generale.
Alcuni rivolsero all’uomo espressioni incomprensibili. Forse
un rimprovero.
L’uomo accennò un vago cenno di scuse, prima d’allontanarsi.
Parlavano un idioma incomprensibile, fatto di suoni gutturali
e vocali simili a versi d’uccello. Sarei arrivato, col tempo, a comprenderne
soltanto una minima parte.
Loro, al contrario, quando parlavo nel mio dialetto,
sembravano capirmi.
Il barbuto che m'aveva svegliato, era il capobanda.
Si chiamava Grinciùi.
Eravamo soldati del re "Beerhardì".
Sembrava normale trovarmi con quella gente e fare quello che
stavo facendo.
Anche loro, passata la curiosità iniziale, mi trattavano come
fossi stato lì da sempre.
Era una vita dura. Si marciava in continuazione, dormendo sulla
nuda terra, senza ripari.
Si mangiava selvaggina, cacciata sul momento.
Gli arcieri, appena capitava l’occasione, frecciavano
animali, simili a cinghiali.
Grinciùi grugniva ordini. Tutti si sparpagliavano alla
ricerca di legna e frasche. Veniva acceso un grosso fuoco a cui s'addossavano
pietre.
I cinghiali, privati soltanto delle interiora e smembrati
alla meglio, venivano messi a cuocere sulle pietre.
Li mangiavamo mentre cuocevano, senza che avessero il tempo
di farlo bene.
Le prime volte avevo avuto ribrezzo per la carne semicruda
dal sapore selvatico. La fame m'aveva abituato presto.
Eravamo soldati e quella era una guerra.
Il vagabondare incessante era, però, incomprensibile.
Non seguivamo una direzione precisa. Si camminava verso est
per giorni, per poi svoltare a sud e proseguire altri giorni. La marcia
s'invertiva, a quel punto, verso nord o verso ovest. Tutto avveniva a tappe
forzate, come per la fretta di raggiungere qualcosa.
Avevo preso il loro aspetto, ormai. Non mi lavavo da quand'ero
arrivato e la barba era cresciuta.
Avevo perso la cognizione del tempo. I giorni erano tutti
uguali.
Non avrei mai pensato di poter resistere tanto, senza dormire
in un letto, senza lavarmi e senza il cibo a cui ero abituato. Eppure mi
sentivo sempre più forte.
Giocavo alla lotta con gli altri uomini.
Le prime volte ero finito sempre a terra, beccandomi
sghignazzi di derisione.
A forza di perdere, avevo imparato, divenendo quasi
imbattibile. Ero molto più alto di loro e pesavo parecchi chili in più.
La statura ed il peso maggiori, temprati dal duro
allenamento, si facevano sentire.
Gl'incontri erano amichevoli e nessuno barava.
Chi perdeva, subiva gli sfottò, quasi divertendosi.
Bisognava mandare l'avversario a terra, nient'altro.
Quando mi sfidò Grinciùi, in persona, rimasi perplesso. Non
aveva mai partecipato al gioco della lotta.
Rifiutare la sfida era impossibile, ma non potevo battere un
capo davanti ai suoi uomini.
Accettai, con l’intenzione di lasciarmi atterrare, dopo un pò
di manfrina.
Con sorpresa notai che Grinciùi non stava scherzando.
All’inizio cercò di prendermi di sorpresa. Poi giocò sporco.
Usava trucchi di bassa lega, mettendoli in atto con impegno e livore.
Cominciavo a diventare nervoso. Prima di combinare qualche
guaio, decisi di mettere fine all’incontro.
Mi buttai a terra, ma gli spettatori rimasero in silenzio.
Grinciùi non fu applaudito.
Ci rimase male. Non era in grado di battermi, neanche
barando. L'aveva capito lui e l'avevano capito i suoi uomini.
Cercò di sorridere, ma non ci riuscì.
Da quel momento, non si giocò più alla lotta.
Per il resto continuammo la solita vita.
Arrivò la paga.
Un messo a cavallo consegnò una borsa di monete a Grinciùi,
che le distribuì a tutti.
A me, ne toccarono diverse di rame, di varia grandezza. Non
erano monete vere e proprie, ma pezzi di metallo quadrati, con un sigillo
punzonato, senza scritte nè cifre.
Nel rozzo stemma s'intuiva una corona.
Provai a rendermi conto di quanto valessero, chiedendo agli
altri. Pur con la grossa difficoltà della lingua, mi sembrò di capire che anche
loro ne ignoravano il valore preciso. Non era ben quantificabile. L'economia
era basata sul baratto. Delle monete si poteva anche fare a meno. Valevano,
però. Chi possedeva molte monete, era ricco.
Decisi di non approfondire. Riposi le monete nella più sicura
delle tasche e le dimenticai.
Passarono altri giorni, forse mesi.
Continuavo a non capire le funzioni della nostra banda, nella
guerra.
Il nemico era un'entità misteriosa. Ero portato a pensare che
non esistesse.
Quando l'incontrammo per la prima volta, non parve vero.
Grinciùi m'aveva spedito di pattuglia, insieme ad altri due.
Guadando un torrente, fummo sorpresi da una sassaiola.
Ci riparammo, senza essere colpiti.
I nemici lanciavano sassi ed insultavano sghignazzando, da
dietro i loro ripari.
Un sasso mi sfiorò la testa. La risata di scherno del nemico
nascosto, mi fece infuriare. Uscii dal riparo, urlando insolenze all’indirizzo
dei nemici. Diedi fondo a tutti gli insulti che conoscevo. Alla fine mi piacque
“mènte pe suocce (cervello a mezzadria). L’espressione dialettale suonava bene.
La urlai più volte, prima di lanciarmi all’assalto.
Mi sentivo animato da un furore incontenibile. Volevo prendere
i nemici e farli a pezzi.
Il cervello a mezzadria, in quel momento, l'avevo io.
Mi ero esposto in modo folle.
Mi ero addirittura lanciato all'assalto, armato soltanto d'un
pugnale che non sapevo usare.
Così andarono le cose, comunque. La vita selvaggia aveva
influito sulla mia razionalità.
La fortuna era dalla mia parte, però.
Aiuta gli audaci e nessuno era più audace di me in quel
momento.
I nemici furono sorpresi, sconcertati e terrorizzati dalla
mossa.
Fuggirono. Io, non ancora contento, mi lanciai
all'inseguimento.
Dopo un centinaio di metri, rendendomi infine conto
dell'assurdità, lasciai perdere.
I miei compagni erano intanto usciti dai ripari, euforici per
l'inaspettata vittoria.
Non so quanti nemici avevamo avuto di fronte. Non potevano
essere stati più di tre o quattro.
Nei giorni seguenti il numero sarebbe cresciuto, fino a
diventare inverosimile.
Quel tentativo di scaramuccia sarebbe diventato un mito.
Uno dei nemici aveva abbandonato la spada. La raccolsi da terra,
rimanendo sorpreso dalla sua rozzezza.
Un pezzo di legno, tertecante, faceva da impugnatura ad una
specie di roncolaccia sgraziata.
Il ferro era di pessima qualità. La forma della lama era
piatta. Al posto della punta, un semicerchio irregolare. Doveva essere stata
più lunga, un tempo. S'era spezzata e la frattura era stata limata ed affilata
in modo rozzo.
La soppesai, constatando che il mio pugnale era un'arma
micidiale, in confronto.
Presi quel trofeo e tornammo da Grinciùi.
Toccava a me presentare il rapporto. Era la parte più
faticosa delle perlustrazioni. Grinciùi non dava mai a vedere se capiva quello
che gli dicevo.
Negli ultimi giorni, Grinciùi aveva mandato in perlustrazione
sempre me, costringendomi a quei resoconti faticosissimi.
Ne ero uscito sempre spossato. Anche quella volta fu così.
I miei compagni, nel frattempo, avevano raccontato in giro
l'impresa del giorno, a modo loro.
"Mènte pe suócce" era diventato
"mintapssòggi".
Avevano ripetuto spesso quella parola, mimando me che m'avventavo
ed i nemici che fuggivano.
Il combattimento era stato feroce. Il numero dei nemici,
impressionante.
S'erano battuti come leoni, senza grandi risultati.
Le sorti dello scontro erano state decise dal mio eroico
assalto, al grido magico di "mintapssòggi".
I nemici erano fuggiti, atterriti da me e dall'urlo di
guerra.
Quando mi feci vedere in giro, terminato il rapporto, molti
si congratularono con me.
La parola "mintapssòggi" risuonava in
continuazione.
Nei giorni seguenti tutti l'avrebbero pronunciata, a mo' di
saluto, incontrandomi.
"Mintapssòggi" sarebbe diventato il mio nome.
M'ero fatto arrangiare un fodero, per la spada che avevo
raccolto come trofeo. La portavo sempre con me, a mò di portafortuna.
Passò altro tempo.
Grinciùi continuava ad affibbiarmi missioni di
perlustrazione.
In una d'esse c’eravamo quasi persi in una pietraia desolata,
dove avevamo vagato per giorni.
Continuavo a non capire lo scopo di quelle peregrinazioni ed
avevo smesso anche di chiedermelo.
I due, che erano stati con me al primo incontro col nemico,
erano ormai compagni fissi. Si chiamavano Mèrzi e Tamìi.
A loro s'era aggiunto da poco un arciere.
Portava con sé un arco enorme, lungo più di due metri. Ne
aveva una cura maniacale. Lo teneva pulitissimo e controllava spesso le frecce,
una ad una.
L'aspetto dell'arco contrastava con la nostre figure sporche
ed ispide.
Un giorno prendemmo di sorpresa due nemici, accampati.
L'arciere riuscì a lanciare le frecce in successione
rapidissima.
I nemici morirono all'istante, senza accorgersene, seduti
dov'erano.
Avanzai per primo, perlustrando accampamento e dintorni.
Constatato che non c'era nessun altro, lo dissi ad alta voce, in dialetto:
"Chiss'èrene! (questi erano)".
Controllando il carico dei muli, notai le sacche di cuoio.
Provai a sganciarne una, rimanendo sorpreso dalla sua
pesantezza.
Non sapevo ancora quanto pesasse l'oro. Avevo una mia idea
falsa, basata su manufatti da pochi grammi.
Ognuna delle sacche, per quanto piccola, pesava almeno
cinquanta chili.
Sui due muli ce n'erano otto, pari a circa quattro quintali
d'oro.
Richiamai l'attenzione dei compagni.
L'arciere, visto l’oro, cominciò ad urlare a squarciagola:
"Auuurrr, auuurrr!".
Allungava la “u” come l'ululato dei lupi.
Il suono fastidioso mi fece dire: "Zìtta ì ! (zitto, per
favore)".
"Zittaì" divenne il nome dell’arciere, da quel
momento in poi.
Avevo detto "chiss'èrene", prima, e tutti avevano
pensato che chiamassi in quel modo i nemici.
"Chissìran" li avrebbero chiamati anche loro, in
seguito.
Il bottino avrebbe accresciuto la mia fama immeritata.
Avevamo intercettato un trasporto di valuta, in una zona
lontana da ogni teatro di guerra.
Grinciùi m'aveva spedito da quelle parti di proposito. Aveva
voluto evitare ogni mio possibile incontro col nemico.
La scaramuccia, da cui avevo preso il nome, era ormai
leggenda.
Ne era nata addirittura una canzoncina orecchiabile, che gli
uomini cantavano spesso.
Le mie "gesta" cominciavano a dare fastidio a
Grinciùi. Era invidioso.
L'esito imprevisto della spedizione, fu per lui un dramma.
Quando tornammo con l’oro, non voleva crederci. Ascoltò
annichilito il rapporto, senza parlare ed evitando il mio sguardo.
Dopo qualche giorno arrivò un messo del re. Fui chiamato a
conferire con lui.
Si trattava d'un onore riservato ai capi. Fin allora Grinciùi
era stato l'unico ammesso.
La mia presenza al colloquio era per lui un'offesa.
Io non avevo niente contro Grinciùi, ma lui temeva in me il
giovane che poteva scalzarlo.
Mi stavo immergendo, per l'ennesima volta e mio malgrado, in
una lotta assurda.
Cercai d'ingraziarmi Grinciùi, davanti al messo.
Nel mio dialetto mimico, ne lodai le capacità d'intuizione.
Grinciùi aveva capito la necessità di sorvegliare anche le
zone di poco interesse strategico.
Il nemico poteva approfittare proprio di quelle, per tentare
qualcosa. L'espressione attonita di Grinciùi mi fece capire che lui non aveva
per niente valutato quell'ipotesi. Aveva, anzi, ragionato in modo opposto.
L'idea che aveva della funzione di capo gl'imponeva di essere
superiore, in tutto, rispetto ai subalterni.
Considerava pericoloso che questi potessero fare ragionamenti
che lui non arrivava a capire.
L’istinto mi disse che il conflitto fra me e Grinciùi sarebbe
diventato insanabile.
Il messo reale s'era messo intanto a contare alcune monete.
Faceva calcoli macchinosi, usando le dita ed una sorta di
piccolo pallottoliere.
Si consultò sia con Grinciùi che con me, utilizzando parole
che non compresi bene.
Cercai di sottolineare la mia posizione di subalterno e mi
rimisi alle sue decisioni.
Volevo defilarmi, nel tentativo di smorzare l'attrito con
Grinciùi.
I conti del messo durarono a lungo.
Stava decidendo la parte di bottino spettante a Grinciùi, a
me ed ai miei uomini.
Alla fine dispose cinque mucchietti di monete, sul ceppo che
fungeva da tavolo.
Nel mucchietto di Grinciùi c'erano due monete d'oro, diverse
d'argento e parecchie di rame.
Per me una moneta d'oro, due d'argento e diverse di rame.
Per Mèrzi, Tamìi e Zittaì, una sola moneta d'argento ed
alcune di rame.
Grinciùi aveva ricavato un guadagno superiore al mio, dalla
mia impresa.
Speravo che questo lo rabbonisse, ma non poteva essere così.
Il messo srotolò sul terreno una pelle conciata, con incisi segni
indecifrabili.
Grinciùi mi fece segno di prendere le monete ed andare via.
Il messo s'oppose, dicendo che dovevo restare. Ero un grande guerriero e potevo
conoscere i piani di battaglia.
Mi sembrò di capire questo, mentre spiavo l'espressione
tempestosa di Grinciùi.
Rimasi e fu molto interessante.
La pelle conciata era una rozza cartina geografica.
Compresi finalmente la posizione del nemico e la nostra,
nonché il senso delle nostre peregrinazioni. Seppi che si prevedevano, a breve,
scontri cruenti e vere e proprie battaglie.
Quando il messo ci congedò, Grinciùi mi salutò quasi
ringhiando, con espressione minacciosa. Ricambiai con identica cordialità.
Avevo combattuto tutta la vita contro nemici che non avevo
cercato. Uno in più non avrebbe fatto
differenza.
I miei uomini accolsero le monete con urla gioiose.
Festeggiarono a modo loro, col sarrabì. Lo portavano sempre con loro, in
piccoli otri, ma lo bevevano soltanto in occasioni speciali.
Era una bevanda alcolica, dagli ingredienti misteriosi.
Sapeva di fieno marcio e dava il mal di testa. Io ne bevvi soltanto una sorsata
minuscola.
Apparvero strumenti musicali. Risuonò nell’aria la canzone di
“Mintapssòggi”. Faceva uno strano effetto essere il protagonista di una
canzone.
Non tutti gli uomini s'erano uniti ai festeggiamenti, però.
Alcuni erano rimasti in disparte. Nella banda s'era creata
una spaccatura.
Nei giorni seguenti, niente più perlustrazioni. Grinciùi mi
tenne nel gruppo principale, dove poteva sorvegliarmi.
Mèrzi, Tamìi e Zittaì marciavano con me.
Alcuni fedelissimi di Grinciùi manifestavano ostilità,
cercando lo scontro.
La maggior parte degli uomini sembrava però infastidita, da
quelle provocazioni. Le riprovava ad alta voce.
Grinciùi si manteneva defilato, aspettando l'occasione
opportuna.
Questa venne con la prima battaglia.
Ci trovammo impegnati, all'improvviso, in una scaramuccia
confusa. Il nemico lanciava sassi, insulti e frecce, in un teatro di battaglia
costellato da massi enormi. Nei meandri fra i massi s'erano accesi scontri
individuali.
Avevo il mio nemico personale. Stavo cercando di stanarlo dal
nascondiglio e procedevo a brevi balzi, riparandomi appena possibile. Intorno
piovevano sassi e frecce.
Urla bestiali e clangore di ferraglia provenivano da ogni
lato.
Avevo già spiccato l'ultimo balzo, quando mi sentii afferrare
per una caviglia e caddi al suolo.
Nel tempo di girarmi, Grinciùi, con l'ascia levata in alto,
era stato trafitto da una freccia. Quella freccia avrebbe trafitto me, se
Grinciùi non m'avesse fatto cadere.
La sua intenzione era stata quella d'uccidermi. Mi aveva
salvato invece la vita, perdendo la propria.
Rimasi a guardare Grinciùi, senza riuscire ad odiarlo.
Un misterioso demone aveva voluto che le cose andassero così.
Ne fece le spese il mio nemico. Gli piombai addosso e lo
sgozzai, con efficienza rabbiosa. Non avevo mai ucciso neanche un pollo prima,
ma pulii il pugnale, sul suo vestito, con sostanziale indifferenza.
La battaglia sembrava essersi calmata. Incrociai Mèrzi,
sporco di sangue, con una testa barbuta nella mano. La sollevò al cielo,
tenendola per i capelli.
“Chissìran!” disse, con disprezzo, buttandola a terra ed
allontanandola con un calcio.
Feci il segno della gola
tagliata, suscitando la sua ilarità. Indicò i miei vestiti sporchi di sangue:
"Èziaam yù, zaac!".
Fece, a sua volta, il segno della gola tagliata e ridemmo
entrambi.
Zittaì, più avanti, stava recuperando la freccia dal cadavere
di un nemico. Mèrzi mimò il tiro con l'arco, dicendo "zaac", in modo
così curioso che scoppiammo di nuovo a ridere. Arrivò anche Tamìi, con la sua
brava testa in mano. Non potei fare a meno di prorompere: "Y zac!".
L'ilarità fu generale.
Continuammo a ridere e scherzare, camminando fra le rocce.
Noi, uomini barbuti e selvatici, coperti di sporcizia e
sangue, in mezzo a mucchi di cadaveri di cui per caso non facevamo parte,
trovavamo tutto questo divertente.
S'era diffusa la notizia della morte di Grinciùi.
Non raccontai a nessuno la verità su di essa.
Lo seppellimmo fra le rocce, insieme ad altri caduti, sotto
cumuli di pietre.
Morto Grinciùi, Mintapssòggi fu capo.
Lo comunicò uno degli anziani, con espressione indifferente.
Se avesse detto "domani forse piove", avrebbe usato lo stesso tono.
Quando moriva un capo, il consiglio degli anziani sceglieva
il successore. Il consiglio era composto dai tre guerrieri più anziani del
gruppo. L'anzianità garantiva che non aspirassero loro stessi al posto e
fossero abbastanza esperti da scegliere la persona adatta.
Mi avevano scelto, perché non c'erano alternative. Avevo
sempre suscitato perplessità, nella maggior parte di loro.
I compagni di pattuglia mi ammiravano, perché, seguendomi,
avevano guadagnato monete e fama.
Agli altri dovevo apparire ben strano. Ero molto più grosso
ed alto. Non parlavo la loro lingua e la capivo soltanto in minima parte. Mi
esprimevo con linguaggio pittoresco, accompagnato da mimiche esagerate.
All'inizio ero apparso anche goffo, imbranato e spaesato. Avevano preso atto
degli avvenimenti che mi avevano dato fama, ma la perplessità non li aveva
abbandonati. Erano uomini rocciosi, di scarsa intelligenza. Ammettevano pochi
modelli di comportamento. Io, per forza di cose, non rientravo in nessuno.
Non riuscivano a capirmi, ma cercavano d'adeguarsi.
S'erano adeguati anche troppo, facendomi capo. Mi avevano
affibbiato una responsabilità di cui avrei fatto volentieri a meno. Adesso
guardavano con l'aria di dire: "Vediamo come te la cavi".
Me la cavai bene, con l'aiuto della fortuna. Venne un periodo
di battaglie aspre e giornaliere. Ci lanciammo nella guerra.
I miei uomini erano combattenti feroci e terribili.
Sembravano ragazzotti pacifici ed inoffensivi. In battaglia
diventavano efficienti e spietati.
Una scia di sangue ci seguiva. Il terrore ci precedeva.
Mietevamo vittorie e bottino.
Combattevo anch'io, come s'aspettavano che facessi.
Erano scaramucce brevi e violente. A volte, il solo urlo di
battaglia "Mintapssòggi", urlato da tutti gli uomini, bastava a
provocare la fuga degli avversari.
Non esistevano schemi. Le battaglie erano somme sanguinarie,
e confuse, di scontri individuali.
Tuffarmi nel caos di ferraglia, riemergendone illeso, pareva
un sogno, un gioco ed un miracolo.
L'avanzata era diventata vertiginosa. Annientavamo i nemici,
seguiti a distanza, ed a fatica, dal grosso dell'esercito.
S'estendeva, intorno, un altopiano brullo, sconfinato ed
inquietante. Qualcosa mi preoccupava. Cercavo per istinto le montagne, dirigendo
verso esse.
Sulla strada per le montagne di Landìi, come le chiamavano
gli uomini, facemmo campo, in attesa del messo reale.
Guardavo il paesaggio tenebroso, ossessionato da presagi
indefinibili. Quella zona non mi piaceva.
Si preannunciava un terribile inverno. Il vento gelido
portava già qualche fiocco di neve.
La prima nevicata leggera coincise con l’arrivo del messo.
Portava paghe, lodi sperticate e cartina geografica. Questa era l'unica di cui
avevo bisogno. Bastò un'occhiata, per capire che le mie preoccupazioni erano
fondate. I Chissìran Stavano cercando di chiuderci in una sacca.
Cercai di spiegarlo al messo, ma non capì una parola.
Pensando non fossi soddisfatto della paga, mi consegnò un altro sacchetto di
monete, con aria complice.
Se ne partì, cerimonioso e sorridente, convinto di vivere una
vittoriosa campagna di guerra.
Si preannunciava invece un disastro. L'avevo capito senza
ombra di dubbio.
Dovevamo marciare a nord, in fretta. Era il punto in cui le
montagne erano più vicine. Se l'esercito nemico ci avesse sorpreso in mezzo
all'altopiano, sarebbe stata la fine.
Procedemmo a tappe forzate per giorni. Facemmo in tempo.
La notizia del disastro ci raggiunse fra le montagne.
Il nemico aveva sorpreso alle spalle il grosso dell'esercito di
re Beerhardì, massacrandolo.
In pochi s'erano salvati, rifugiandosi tra le montagne. Erano
inquadrati per lo più di bande irregolari, come la nostra.
Ci aspettavano mesi tremendi.
Le prime nevicate abbondanti portarono la fame.
Razionammo le vettovaglie, ma servì a poco. Ci nutrivamo di
orridi uccellacci, chiamati tiliù.
Erano indigesti, ma facili da cacciare.
La neve alta rendeva faticoso muoversi. Le giornate nelle
grotte, tormentati dalla fame, non passavano mai.
Ogni battuta di caccia era una fatica disumana, dai risultati
scarsi.
Ci fu un momento d'abbondanza, quando l'inverno profondo
portò a valle i lupi.
Trovammo in essi un pò di cibo migliore.
Nel corso dell'inverno, avremmo mangiato tutti i lupi
esistenti nei paraggi.
Continuava a stupirmi la mia capacità di resistenza, in quel
clima, senza vestiti adatti.
Agli abiti estivi, ormai a brandelli, avevo aggiunto soltanto
un mantello di pellaccia malconciata, rubato ad un Chissìran.
Gli scarponi militari tenevano. Tutto il resto era ridotto
male. Avevo cercato di fare delle riparazioni, con fibre vegetali e lembi di
pelle, senza concludere granché.
Forse lo strato di sporcizia, che mi copriva, proteggeva
anche dal freddo.
Accendevamo il fuoco e passavamo le giornate nel fumo denso,
oppressi dalla fame.
Riuscimmo a sopravvivere, in quelle condizioni tremende, per
un tempo che parve enorme.
Un latrato di cani riportò, un giorno, la vitalità della
guerra.
Il nemico pattugliava
le montagne, cercando di stanarci.
Usava cani grossi e ben pasciuti. Li mangiammo quasi tutti,
riacquistando forze.
Pensammo di tentare una sortita.
Scendemmo verso valle, intenzionati a tutto.
Incrociammo due nemici ed un cavallo. Li uccidemmo e
divorammo il cavallo seduta stante, dopo averlo abbrustolito alla meglio. Il
sapore della carne semicruda e bruciacchiata parve divino.
Per la prima volta, dopo mesi, ci sentivamo vivi. Mèrzi, di
nuovo allegro, indicò il cadavere di uno dei nemici, facendo il segno del
mangiare. Stava scherzando, ma lo presi sul serio.
Risposi inorridito: "Magnà gli'ome, no! (mangiare
l'uomo, no)".
Approvò con decisione. Per quanto primitivo e feroce, aveva
orrore del cannibalismo.
Non l'avevano i nemici, però. Nei giorni seguenti trovammo
resti di banchetti antropofagi, nei loro accampamenti.
"Magnalòmm", commentava Mèrzi.
"Magnalòmm", convenivo io, raggelato dalla constatazione.
Avevo ribrezzo dei Chissìran. Stavano vincendo e non avevano
fame. Mangiavano carne umana per pura ferocia. Continuammo a marciare.
Avevo lanciato gli uomini nella sortita e non volevo
riportarli indietro.
Avevo fame di carne di cavallo. C’era il gusto del ritorno
alla vita, in essa.
Per trovare cavalli dovevamo cercare i Chissìran.
Così facemmo.
Trovammo Chissìran, cavalli e scaramucce vittoriose.
Il gusto della vittoria e della carne di cavallo ci portò al
paese di Ghiupsì. Lo prendemmo senza problemi.
Cercavamo cavalli da mangiare e basta.
Marciammo sulla strada, col coraggio folle della fame
passata.
Entrammo dalla porta principale, fra l'indifferenza di tutti.
Non c'erano guardie. La zona era considerata sicura.
Quando capirono chi eravamo, il paese era già in mano nostra.
Liquidammo i deboli tentativi di resistenza in pochi minuti.
Il paese di Ghiupsì era minuscolo, ma circondato da poderose
mura.
Ispezionammo la cinta muraria, constatandone
l'imprendibilità.
Nel delirio che ci guidava, cominciò a farsi strada la
straordinarietà della nostra impresa. Ghiupsì era in grado di resistere per
mesi all'assalto di eserciti potenti. Noi l'avevamo presa in pochi minuti,
quasi senza combattere.
C'era abbondanza di provviste, anche. La lontananza dei
precedenti teatri di guerra, aveva preservato i raccolti.
Il corpo di guardia custodiva un tesoro, in monete d'oro,
d'argento e di rame. Avremmo comprato le provviste, mantenendo buoni rapporti
con la popolazione, a spese del nemico.
Ghiupsì sarebbe stato il punto d'aggregazione e
riorganizzazione per tutte le bande sparse in giro. Dovevamo restare lì ad ogni
costo. Nel paese c’era anche qualcosa che ci mancava da troppo tempo: le donne.
Erano venute giusto in quattro, ad offrirmi da bere, mentre
ispezionavo il paese, insieme ai tre fedelissimi.
I sorrisi schivi e maliziosi promettevano bene.
Eravamo interessati ad approfondire.
Ci mostrarono le loro abitazioni. Fecero capire che saremmo
stati ben accetti.
Dovevamo rimanere a Ghiupsì, non c'era altro da fare.
Presa la decisione, così poco militare, mi impegnai
nell'organizzazione della difesa.
Alloggiai parte degli uomini nel corpo di guardia, altri in
una casermetta.
Contattai l'unico oste, ordinandogli da mangiare per tutti.
Sembrava riluttante. Le monete dei Chissìran lo convinsero.
Organizzai anche dei turni di guardia.
Alla fine m'incamminai, seguito dai tre complici.
Scegliemmo a caso le abitazioni, senza sapere chi avremmo
trovato all'interno.
Bussai alla porta che m'era toccata.
Una delle quattro sembrò contenta di vedermi. Se l'aspettava.
Aveva preparato addirittura un mastellone per il bagno, con
tanto di sapone e vestiti di ricambio, vicino al camino acceso. Avevo
finalmente la possibilità di spogliarmi e lavarmi.
Quello che restava dei vestiti venne via a fatica,
appiccicato al corpo dalla sporcizia. I piedi erano in condizioni
indescrivibili. M'immersi nel mastellone con voluttà. Il sapone rozzo puzzava
di rancido, ma svolgeva bene la sua funzione.
M'insaponai tutto, dalla testa ai piedi, compresi capelli e
barba.
La ragazzona s'era defilata. Ogni tanto sbirciava di
nascosto, per vedere cosa veniva fuori, dallo strato di sporcizia.
Terminato il lavaggio, sembrò soddisfatta.
S'avvicinò premurosamente con un telo, per farmi asciugare.
Mi sentivo un altro.
L'acqua nel mastello era diventata nera.
Indossai i vestiti pronti. La stoffa era grezza, ma pulita.
Faceva uno strano effetto, sulla pelle. Dei vecchi vestiti conservai cintura e
pugnale. Il resto lo buttai direttamente nel fuoco.
Per prudenza, avevo lasciato i miei averi al sicuro, nel
corpo di guardia. Portavo con me soltanto poche monete.
La ragazzona aveva apparecchiato.
Saputo chi ero, rimase sbalordita. Aveva già sentito parlare
di Mintapssòggi, evidentemente.
Lei si chiamava Matiùlda.
La cena, di pollo e verdure, sembrò perfetta. Da tempo
immemorabile non mangiavo niente di ben cucinato.
Il resto potete immaginarlo. Matiùlda era una ragazzona dalle
forme abbondanti, disposte sopra un telaio solido.
Rimasi a guardarla mentre si spogliava, con movenze fra il
pudico e lo sbarazzino. La notte d'amore fu fantastica.
La mattina dopo, mi sentivo padrone della terra. Uscii mentre
ancora dormiva, lasciando un mucchietto di monete.
Incontrai Mèrzi, Tamìi e Zittaì, ripuliti e vestiti a nuovo,
come me.
Mèrzi mimò il rapporto sessuale, con la mano, e scoppiammo a
ridere tutti e quattro.
Iniziammo il giro di perlustrazione, prendendoci in giro l'un
l'altro.
Gli altri uomini guardavano perplessi.
Avevano nei miei confronti un atteggiamento che vagava dalla
commiserazione all'ammirazione.
Ero un buon capo, con molte rotelle fuori posto.
Erano tutti soddisfatti, comunque. Avevano mangiato e dormito
bene.
Il giorno prima non avrebbero potuto neanche sognarlo.
Non era accaduto niente di particolare, durante la notte.
Avremmo tenuto Ghiupsì senza problemi, per un lungo periodo di tempo.
I pochi superstiti delle altre bande cominciavano ad
arrivare, alla spicciolata. Di loro s'occupavano i tre
"luogotenenti", più esperti della lingua.
Io avevo poco da fare, durante il giorno. Le notti le passavo
con Matiùlda. Lavava e teneva in ordine i miei abiti. Cucinava e facevamo
l'amore. La mattina, lasciavo le monete.
Le canticchiavo, per scherzo, una canzone di Belafonte. Si
divertiva. Pagavo bene e le piacevo, anche. Uno dei migliori clienti che avesse
mai avuto.
Doveva finire quel periodo spensierato a Ghiupsì, però.
Re Beerhardì aveva iniziato una controffensiva. Prendere quel
paese aveva rimesso in moto tutto. Avevamo scardinato la difesa dei Chissìran
in un settore importante.
Quella zona era adesso abbastanza tranquilla.
Volevano che mi spostassi nel settore più problematico della
guerra, dove l'intervento della mia banda poteva essere risolutivo.
Un battaglione della riserva avrebbe preso il nostro posto,
nel paese. Questo disse il messo, quando giunse.
Portava monete, tante monete, ed una medaglia d'oro per me.
Ero stato nominato priuòl del re e non so cos'altro.
Elencò onorificenze per molto tempo, consegnandomi nastrini
ed altra paccottiglia.
Conoscevo il sistema: premi fasulli e fregature vere.
I successi della banda di Mintapssòggi cominciavano a dare
fastidio. Ci spedivano nel punto più rovente della guerra, sperando
bruciassimo. Camuffavano questo con le onorificenze.
Sospettavo fossero anche di poca o nessuna consistenza. Mi
dispiaceva soltanto una cosa: dovevo lasciare Ghiupsì e Matiùlda.
Non potevo rifiutare, purtroppo.
Ripresi la roncolaccia portafortuna e m'avviai.
Salutai Matiùlda con rimpianto. Non l'avrei rivista più.
Gli uomini della riserva erano già arrivati. Giravano per il
paese, sporchi e malandati. Le donne cercavano di familiarizzare, offrendo da
bere. Fra esse notai, da lontano, anche Matiùlda. Quella sera avrebbe avuto un
altro ospite.
Riprendemmo la vita di sempre: marce forzate e battaglie.
Eravamo sempre nei punti caldi, adesso. Scontri estenuanti e
sanguinosi c'impegnavano di continuo.
La quasi morte per fame dell'inverno prima, risolta in quel
modo straordinario, ci aveva resi più coraggiosi.
Ci sentivamo imbattibili e lo eravamo. Giovani guerrieri
accorrevano da ogni parte, ansiosi d'unirsi a noi.
Vivemmo un'estate esaltante e sanguinosa, fatta di una sola
vittoriosa battaglia senza soste.
Noi eravamo imbattibili, ma l'esercito regolare di re
Beerhardì era comandato da imbecilli.
Le vittorie delle bande irregolari venivano vanificate dalla
loro inconcludenza.
All'inizio dell'inverno, senza aver mai perso una battaglia,
ci trovammo accerchiati e braccati dal nemico, fra le montagne.
Avevo paura di ritrovarmi nella situazione dell'anno prima.
Non feci rintanare i miei uomini.
Continuammo ad attaccare senza soste.
La sarabanda d'iniziative disorientò il nemico.
Ci nutrivamo di cavalli, cani, lupi e qualsiasi altro animale
commestibile.
L'unica cosa che non mangiammo mai, fu la carne umana.
- Magnalòmm, no! - Ripeteva Mèrzi, ridendo.
Il morale era alto, anche in quell'inferno. Il nemico
braccante si sentiva braccato.
I miei uomini straordinari, sbucavano da tutte le parti,
colpivano e tornavamo nella foresta, per poi sbucare di nuovo a chilometri di
distanza, senza fermarsi.
Non avevo quasi bisogno di dare ordini. Sembravano capire al
volo cos’avevo in mente, al contrario di me.
Cercavo soltanto di mantenere l'iniziativa e di non finire in
una grotta a morire di fame.
Ricordavo troppo bene quello che avevo passato l'anno prima.
Speravo anche nei rinforzi di quei pasticcioni dei generali.
Speranza vana.
I rinforzi non arrivarono, ma la situazione volse lo stesso a
nostro favore. Alla fine dell'inverno il nemico era in ritirata.
Durante la primavera, la ritirata si tramutò in fuga
rovinosa.
Incalzavamo, ormai, senza neanche sapere cosa stava
succedendo dalle altre parti.
Venne una tempesta di furore. Le battaglie seguivano le
battaglie. Il sangue scorreva a fiumi.
La mia banda era ormai numerosissima. Tutti gli sbandati
delle altre bande e dell'esercito s'erano uniti a noi.
Comandavo una brigata, agli inizi dell'estate.
Il nemico era scomparso, polverizzato in una disfatta
rovinosa. La guerra era finita e re Beerhardì aveva vinto.
Venne la smobilitazione, col suo caos peggiore della guerra.
I miei uomini partirono per le case lontane.
Salutai per sempre Mèrzi, Tamìi e Zittaì. Non avevo mai avuto
amici come loro e non ne avrei avuti più.
Mi ritrovai da solo nella pianura, diretto chissà dove.
La terra attonita guardava la pace, non sapendo se crederci.
Camminavo con la roncolaccia sulle spalle, cercando risposte
a domande che non sapevo pormi.
Traversai per giorni distese di campi incolti, nutrendomi di
frutta selvatica.
In un gruppo di case, rimaste intatte ed abitate, riuscii a
comprare un pò di viveri.
Il denaro non mi mancava.
Chili di pesantissime monete, m'infastidivano sotto il sole.
Vagai così per tanto tempo, forse mesi.
Avevo intenzione di trovare un luogo di mio gradimento. Avrei
comprato un pò di terra e sarei rimasto a vivere là, per sempre.
La sagoma della grotta di S.Bernardino mi sorprese, un
mattino, con l'improvviso ricordo d'avvenimenti dimenticati.
Non m'ero più interrogato sulle circostanze che mi avevano
portato in quei luoghi ed in quella guerra.
Il sedile di pietra m'attrasse come una calamita.
Mi sedetti e sprofondai subito nel sonno.
Al risveglio, l'ingresso della grotta era coperto dalla vegetazione.
Nel fitto sottobosco, s'intuiva un percorso, aperto da qualcuno.
Lo seguii per ore. Quando sbucai vicino alla mia macchina
parcheggiata, rimasi folgorato.
Ricordavo a malapena cosa fosse.
L'idea delle chiavi tornò a poco a poco, da molto lontano.
Le avevo dimenticate per anni e non mi erano mai capitate in
mano.
Rovistando tutte le tasche e le bisacce, le trovai.
La macchina, ferma da anni, partì al primo colpo, lasciandomi
sbalordito.
Avrei constatato, poi, che non c'era niente di sorprendente.
Era passato soltanto un giorno da quando l'avevo lasciata lì.
Eppure l'avvenimento appariva tanto remoto che faticavo a
ricordarne i particolari.
Ero uscito da casa il giorno prima e rientravo dopo anni di
guerra.
Non sarei mai riuscito a comprenderlo del tutto.
Non era stato un sogno. La roncolaccia, le cicatrici e gli
abiti non lo erano.
Passai molti giorni spaesato, ma piano piano ripresi la
solita vita.
M'aspettavano tempi duri, pieni di problemi.
Non avrei avuto più paura di niente, però.
La paura l'avevo combattuta e vinta, per sempre, nel tremendo
inverno di Landìi.
Di quella guerra m'era rimasto il coraggio e l'oro di re
Beerhardì, prezioso in certi momenti.
Gli anni che sono passati da allora mi hanno portato ad una
vita più tranquilla.
Conservo ancora le monete di rame di re Beerhardì, le sue
onorificenze e, soprattutto, la roncolaccia dal manico tertecante.
Mi piace ancora impugnarla e ricordare quando divenni
Mintapssòggi, il guerriero che non ho mai smesso di essere.
FINE