UN POVERO DIAVOLO

di Raimondo Rotondi

 

 

Un quarto di secolo è passato, da allora.

Giravo l’Italia con l’autostop, in una calda estate della mia fulgida gioventù.

Apparivo, però, tutt'altro che fulgido.

Gli ultimi due giorni avevano lasciato il segno.

Mi trovavo in qualche luogo, impossibile da ricordare, dalle parti del nord. La zona pareva spopolata.

L'ultimo passaggio, ottenuto da due stravaganti, per niente bonari, era stato fatale.

Mi avevano fatto scendere in quella landa desolata, sghignazzando con aria minacciosa.

Doveva essere il loro hobby preferito, quello di prelevare autostoppisti ed abbandonarli in luoghi deserti.

Avevano affinato la tecnica a lungo.

La zona prescelta era micidiale. Passavano poche macchine e tutte m'ignoravano.

Avevo camminato per due giorni senza fermarmi mai, ma invano.

Pareva non esistessero centri abitati, nelle vicinanze.

S'estendevano, a perdita d'occhio, boscaglie e campi incolti.

Dormire nel sacco a pelo, senza lavarmi, non aveva migliorato il mio aspetto.

L'autostop era diventato impossibile. Avevo smesso anche di provarci.

Camminavo sulla strada, oppresso da oscuri pensieri.

Il rumore dell’ennesima macchina mi lasciò indifferente.

Non mi voltai neanche a guardarla, ma si fermò lo stesso al mio fianco.

La guidava un angelo, male in arnese come me. Per questo s'era fermato.

Gli chiesi di portarmi alla stazione più vicina o, almeno, d'indicarmi la strada.

Assicurò che ero fortunato. Dalla stazione di non ricordo cosa, stava per partire il treno delle dieci. Avrei fatto appena in tempo a prenderlo.

Mi accompagnò, con molta gentilezza.

Era una stazione secondaria, di quelle poste a chilometri dal più vicino centro abitato.

Il capostazione era anche bigliettaio e tuttofare. In pratica, abitava lì.

Mi guardò con espressione schifata, mentre domandavo del treno delle dieci.

Rispose che "tutti sapevano" che quel treno era stato soppresso.

L'unico rimasto era quello delle quattordici, non sempre puntuale.

Non avevo alternative. Acquistai il biglietto e mi rassegnai alla lunga attesa.

C'erano lavori in corso ed i bagni erano impraticabili.

Utilizzai una fontanella esterna per radermi e darmi una ripulita.

Il capostazione sorvegliava a distanza, con evidente riprovazione.

Quando si stancò di guardarmi, posò il cappello e se ne andò a lavorare in un orticello lì vicino.

Io, a forza d'acrobazie, riuscii a rendermi quasi presentabile. 

L'orologio della stazione segnava le dieci e trenta.

Dovevo attendere ore, in quel posto sperduto.

Mi trovavo in una zona disabitata. A parte la stazione, non c'era altro.

Gli unici esseri viventi, oltre me e il capostazione, erano un cane grigiastro ed una mucca, di colore ed aspetto indefinibili.

Il cane mi aveva degnato soltanto di uno sguardo distratto, all'inizio.

Si era messo, poi, ad ignorarmi con molto impegno.

La mucca lanciava occhiate ironiche, o così pareva.

Era una fantasia malriuscita di tentativi di colore.

Esibiva sgraziate corna storte, sopra il muso dallo sguardo strabico. Pascolava le rade erbe di un praticello spelacchiato. Guardava, quasi affermando d'aver conosciuto esemplari migliori della razza umana. Una consolazione, per lei che non era il meglio della razza bovina.

Il capostazione si era rintanato nell'orticello, a spargere quantità spropositate di concime chimico.

Lavorando chino e senza soste, continuava a deporre granelli multicolori dappertutto.

Passai ore interminabili, a guardare quel lavoro assurdo ed a scambiare occhiate di commiserazione con la mucca.

Il cane continuava ad ignorarmi.

Alle tredici e trenta, mi sembrava di essere lì da secoli.

La vista del capostazione, chino sui solchi, era divenuta insopportabile. Cominciavo ad odiare la mucca. Il cane era mio acerrimo nemico, da sempre.

Mi distrasse, per qualche secondo, l’arrivo di una bella ragazza.

Mi rivolse, però, uno sguardo talmente schifato da farmi accapponare la pelle.

Pareva aver visto un orrido scarafaggio.

Tale cominciavo a sentirmi.

La mucca gongolava di sadica soddisfazione.   

Un uomo di mezza età, dai lineamenti meridionali, si era materializzato al mio fianco.

Parlò con accento milanese, quando chiese da accendere.

Iniziammo a scambiare le solite chiacchiere di circostanza.

Il discorso proseguì monotono, finché non mi trovai a dire:

-... siamo tutti poveri diavoli, in fondo. -

- Mi è bastato uno sguardo per capire chi sei. -

- Prego? -

- Sei impaziente e pieno di voglia di fare, ma non t’illudere. Le cose vanno così ed andranno sempre così. Non si può eliminare il bene dal mondo. -

Tacqui sconcertato, pensando d'aver capito male. Lo sconosciuto continuò:

- Ero anch'io come te, una volta. Ho lavorato tanto, ma poi ho capito che era tutta fatica sprecata. Basta un niente ed il bene trionfa.

Guarda quella mucca: starebbe bene in una pubblicità. -

Guardai la mucca, rendendomi conto che era simpatica.

Un buon pubblicitario ne avrebbe fatto un personaggio, senza troppa fatica.

L’uomo continuava a parlare.

- Guarda quel cane sdraiato al sole. È il ritratto della felicità. -

Dava, in effetti, un’idea di completo appagamento, mentre si crogiolava, dimentico di tutto.

- Il capostazione è felice del suo orto, della sua stazione, del suo lavoro. -

In quel momento il capostazione, fiero e professionale, si appressava ai suoi compiti. Uno scampanio incessante annunciava l'arrivo del treno.

- E quella ragazza! Le gambe di una bella ragazza sono la foto del paradiso terrestre. Lì ci troviamo adesso. Il mio lavoro sembra svanito nel nulla.

Io sono anziano, ormai. Adesso tocca a te.

Ti consiglio di non illuderti e di prenderla con calma. Le cose continueranno ad andare come sono sempre andate. Noi poveri diavoli non possiamo farci nulla. -

Guardai meglio la ragazza che mi ricambiò, interessata.

Il discorso di quello strano tipo aveva effetti miracolosi.

Lo squallore che guardavo da ore, sembrava non esistere più.

La simpatica mucca sorrideva felice, nel suo prato verde, punteggiato di fiori. Il cane, vispo ed intelligente, scodinzolava. La stazione s'era riempita del vocio festoso di allegri passeggeri.

Un'atmosfera di gioiosa serenità aleggiava nell’aria.

Io squadravo le gambe della ragazza, convinto che fossero il biglietto per il paradiso terrestre.

Il mio interlocutore, intanto, continuava.

- Ricordalo bene: nessuno potrà mai eliminare il bene dal mondo…-

Mi girai per rispondergli, ma era sparito.

Lo cercai dappertutto, con lo sguardo, senza trovarne traccia. Non lo trovai neanche sul treno, una volta salito.

I vagoni erano pieni, ma non affollati. I passeggeri parevano, tutti, contenti e soddisfatti.

La ragazza dalle gambe paradisiache, si era seduta di fronte a me. Continuava a lanciare sguardi promettenti.

Mi sentivo appagato, felice ed avviato verso un radioso futuro.

L’arrivo del treno aveva mutato il mio umore in modo incredibile.

Più che dall'arrivo del treno, il mutamento sembrava, però, prodotto dallo strano discorso dello strano individuo.

Mi è capitato spesso, negli anni seguenti, di riflettere sull'effetto che avevano avuto le sue parole.

Mi sono, a volte, sorpreso a pensare che fosse davvero...

Passano strane idee in testa, in alcuni momenti.