AUTOMAT
(il terzo soggetto)
di
Simone Fregonese
Sul finire
degli anni venti, prima della grande depressione, il celebre pittore americano
Edward Hopper dipinse “Automat”. Il quadro raffigura una giovane donna seduta
al tavolino rotondo di un anonimo bar self-service. È sola, il viso pallido
esaltato nel candore dalla luce artificiale ed incorniciato da un cappello
giallo paglierino e dal bavero in pelliccia del cappotto verde.
Regge
una tazzina di caffè e la fissa, sebbene lo sguardo appaia vacuo, assente. La
ragazza in primo piano non è però l’unico soggetto importante del quadro, no,
ce n’è un altro, fondamentale, talmente ingombrante da passare quasi
inosservato: è la grande vetrata che occupa quasi tutta la parete alle spalle
della donna.
La
debole luce della strada, è notte, contrasta con la forte illuminazione del bar
e fa sì che la parete di vetro rifletta come uno specchio l’ambiente, così
dall’esterno si può guardare senza essere veduti.
Fu
proprio in quel locale che, ancora poco meno di un ragazzetto, incrociai
Hopper, almeno credo fosse lui, poiché, a parte il tranquillo signore che se
n’era appena andato, l’unica cliente del bar in quel momento era lei: la
signorina de quadro. Ne sono sicuro.
Ah,
scherzi della memoria, a malapena rammento chi ho incontrato cinque minuti fa
mentre ricordi della mia fanciullezza affiorano così vividi che sembra siano accaduti
da poche ore; a volte spero di smarrirmi in questi ricordi e rimanerne
intrappolato per il resto dei miei giorni: morire ragazzino. Perdonate questa
breve patetica parentesi, ritorno subito ai fatti.
Negli
anni venti ero poco più di un marmocchio, mio padre possedeva un magazzino di
prodotti alimentari. Riforniva alcuni ristoranti di New York e, la sera, spesso
lo accompagnavo mentre effettuava le consegne col furgone nuovo nuovo.
Attardarmi a lavorare mi riempiva d’orgoglio mentre nei miei pantaloni larghi
sorretti da bretelle sgualcite scaricavo e consegnavo goffamente alcune
cassette leggere.
Fu
proprio durante una di queste consegne che vidi la protagonista del quadro,
seduta a quel tavolino. Quello che presumo essere stato Hopper se ne stava andando,
mentre io giocavo al lavoratore. A dire la verità non feci molto caso a nessuno
dei due, impegnato com’ero nell’impedire che due bottiglie mi cadessero
andandosi a sfracellare sul pavimento, con conseguente fuga dalla vindice mano
paterna; fu solo molti anni dopo, quando vidi il quadro pubblicato, che capii
d’aver potuto vedere il terzo soggetto dell’opera, quello nascosto, talmente
nascosto che nemmeno lo stesso autore conosce.
Entravo
ed uscivo di continuo, portando con me, di volta in volta, merce di peso
risibile ma pur sempre, mi dicevo, un piccolo anello nella grande catena del
mercato mondiale di alimentari. Nonostante tutto il mio viavai, la signorina
pareva non notarmi: chissà a che pensava…
“… caffè caffè caffè muovi la tazzina
piano piano guarda il caffè che gira il caffè amaro amaro accidenti se è amaro
questo caffè ma ci vuole proprio dopo un bel film un caffè anche se questi
guanti mamma mia devo proprio comprarne un altro paio che sono fuori moda che
chissà poi che dice la gente chissà come quella canzone “chissà che dirà, la
gente che dirà?” era una canzoncina allegra con una ragazzina che ne combinava
di tutti i colori “con i suoi amici furbi” beata lei adesso sarà cresciuta e
starà a al Connie's
Inn o al Cotton Club e non in uno stupido bar sola come un cane. Merda! Brava
stupida, ecco che mi si stringe il petto. Non sono sola, è che mi debbo
ambientare, tutto lì. Ci vuole un po’ di tempo per farsi un amica, un amico,
insomma, un po’ di… no, no, che stupida, non pensare, non pensare, concentrati
sul caffè caffè guarda il caffè come gira e questa sedia scomoda e la schiena
che mi fa male e appena arrivo a casa mi butto a letto o meglio ancora dalla
finestra. Merda! E’, tanto difficile raggiungere il nirvana. Il ragazzino che
cammina con quelle scatolette, com’è impettito. Chissà, magari inciamperà e mi
rovescerà addosso qualche schifezza, così potrò accarezzargli la testa e
dirgli: “Grazie tante, è la cosa più interessante che mi sia capitata da
qualche tempo a questa parte”. Mi basterebbe poco, un essere umano qualsiasi,
uno sconosciuto che si sedesse qui, vicino a me, qualche minuto, così, per
farmi accorgere d’essere ancora viva, così, anche solo per… Perché non c’è
nessuno anche quando ci sono tutti? Via i brutti pensieri, anzi, via i
pensieri: è come la filastrocca per addormentarsi uno e uno fanno tre tre e tre fa quarantuno e non mi ricordo ma
questo caffè…”
La
merce era stata consegnata e mio padre, come il solito, si attardava con
Kaminsky in cucina. Kaminsky era il vecchio cuoco. Portava i capelli lunghi, il
volto era scavato, mustacchi come i cosacchi ed un tatuaggio sbiadito
sull’avambraccio. Quando mi vedeva gironzolare in cucina mi sollevava
prendendomi sotto le ascelle e mi diceva: “I muscoli, campione, fammi vedere i
muscoli.” Gonfiavo i bicipiti, e lui rideva di cuore, poi mi posava a terra e
mi ordinava di farmi un giro perché col papà doveva discutere di faccende che
evidentemente non richiedevano la mia presenza. Quella volta non fece eccezione
così uscii e mi arrampicai sul cassone del furgone; fu da lì che lo vidi. Il
terzo soggetto: un giovanotto, dal marciapiede, osservava la donna di spalle
con uno sguardo che pochi anni dopo, avrei imparato a conoscere bene…
“…sotto quel cappellino, chi c’è? Oh,
io lo so bene, un cappellino non mente, e ti vedo, appena appena, la punta del
naso. Aspetti qualcuno, signorina? Certo che sì, e fortunato l’atteso, sono
forse io? Non credo, ad attendere me solo i creditori, a volte una polmonite.
Pochi cappellini sulla mia strada, signorina. Eppure il capo è chino, la mano
guantata immota: se attesa è la tua, non è né impaziente né gioiosa. Forse il
tuo uomo ha incontrato un frivolo cappellino di piume di pavone, uno di quelli
appariscenti che passano presto di moda? Oh, signorina, se è solo per questo il
mondo è pieno di bombette, tube, berretti, panama. Non saranno i copricapo a
mancarti? Ad esempio io ne indosso uno elegante ma non affettato, potrei
fartelo vedere: sono curioso di scoprire che bel visino nascondi. Ma non credo
che entrerò, no, mi accontenterò di disegnare, sotto quella punta di naso,
centinaia d’ipotetiche bocche eppure… per una volta potrei, per una volta,
sfidando il rossore, strangolando l’imbarazzo, sparando una pistolettata in
mezzo agli occhi alla paura di un rifiuto, ecco, potrei presentare il mio abito
scuro al tuo cappotto verde. Sai che tipi curiosi sono i colori, non parliamo
poi dei capi d’abbigliamento, potrebbero anche andarsi a genio e sfilare sulle
passerelle della vita, ammirati come l’ultima moda. Basterebbe un gesto, uno
sguardo, un cenno del capo, un impercettibile segno d’assenso e mi
precipiterei…”
Lei
d’improvviso, si voltò ed i loro sguardi si incrociarono per un attimo, pochi
gelatinosi istanti. Il volto di lei assunse un’espressione disperata…
“…e quel pallido riflesso sarei io?
Quella cosa verde sarei io? No, specchio bugiardo, tu mostri la metà sbagliata.
Perché così, vigliacco, mi poni davanti a me stessa? Davanti a me sola. Debbo
pensare al mio caffè, al mio gelido caffè. Una tazzina, un piattino, del caffè
ed io, con me…”
Il
ragazzo arrossì ed arretrò, come colpito da un diretto. Si abbassò la falda del
cappello, allontanandosi con passo lesto…
“…Bravo! L’ho spaventata! Chissà che
occhi da maniaco avevo. Porca miseria, era pure carina! Cretino di un cretino,
avrà creduto chissà che, ho visto un lampo di disgusto balenarle sugli occhi.
Che figura, che figura! E chi ha il coraggio di tornare indietro a spiegarle
che… via! Via, veloce come il vento, altrimenti prendo fuoco.”
Mi
padre uscì, aveva in bocca uno di quei puzzolentissimi sigari di Kaminsky.
Montò in cabina, lo raggiunsi. Avviò il motore e partimmo. Voltandomi, lanciai
un’ultima occhiata alla ragazza…
“Uno due tre quattro certo che ne ha di
luci questo locale di serie ci e questo caffè e freddo freddissimo gela e sono
stanca e adesso me ne vado proprio a casa e mi getto a letto. O dalla
finestra.”
Ora
che sto per posare la penna mi chiedo perché ho imbrattato d’inchiostro questi
fogli. Mah, forse perché mi piace ritrovare, ora che gli sono tanto distante
eppure così vicino, il piccolo me stesso degli anni venti.
Oppure
per darmi importanza, come quei vecchi rompiscatole che sembra siano gli unici
ad aver avuto una vita degna di essere raccontata, e si premurano di renderne
edotte le giovani generazioni.
O
perché, quella silenziosa ed impotente gabbia di solitudine che il pittore ha
regalato alla tela, è stata per molto tempo anche la mia.
Forse,
semplicemente, perché dietro ogni attimo, ogni volto, ogni uomo, c’è una storia
e qualcuno dovrà pur prendersela, la briga di raccontarla.